“ABBRACCIALO PER ME” MEDITAZIONI DI UN MEDICO

Sotto un cielo limpido, in un incantevole Borgo della Conca d’oro, alle porte di Palermo, poche migliaia di persone animano strade, vicoli, cortili, loggette e balconi splendenti al caldo sole di Sicilia.
In questa terra moresca e mediterranea, crogiuolo di bellezze naturali e umane straordinarie, di dolci idiomi e riti antichi si svolge la vicenda umana di Francesco “Ciccio” Gioffredi e della sua famiglia travolta dalle “stranezze” che capitano nella vita, che squarciano sipari che pregiudizi atavici hanno calato per celare le disabilita’.
Ciccio è un bambino vivace e allegro, che nella piazza del paese si diverte a “disturbare i bandisti” durante la processione di Santa Rosalia. Tamburellare e armeggiare con la tromba gli costano gli sguardi severi dei suonatori oltre al prontissimo intervento degli imbarazzati Caterina e Pietro, suoi genitori.
Comincia così il film “Abbraccialo per me” di Vittorio Sindoni, che ho avuto la fortuna di visionare a Bella nell’ ambito della tredicesima rassegna del BBFF.
A me non piace molto star seduto in una sala cinematografica, per cui solo in poche occasioni mi ci reco. Questa volta mi ha sedotto il titolo e per la verità non me ne sono pentito, nonostante immediatamente mi è sembrato di entrare in un tunnel con le caratteristiche di un calvario: una sfida alla mia coscienza di uomo che si sforza di andare verso la giustizia, medico e comunista.
Ciccio cresce, a scuola litiga con i compagni e purtroppo comincia a “vedere” un Giampiero che sarà l ‘ossessione dei suoi giorni, che lo tormentera’ anche la notte. Ma nessuno comprende che questo figlio ha bisogno di carezze e di qualcuno che riesca a capire, ad andare a monte. Invece la maestrina si preoccupa di chiamare la madre ricordandole che Ciccio è strano, un pericolo. La madre si strugge, non comprende, il padre ricorre alle manieri forti, illudendosi di insegnare. Entrambi soffrono e patiscono. Amano il loro figlio. Sono soli. Non sanno a chi rivolgersi se non agli specialisti della città federiciana, che diagnosticano e prescrivono farmaci. I due genitori alla fine si separeranno, perché la madre si trasformerà in una leonessa pronta a proteggere fino all ultimo il suo cucciolo. Il padre sprofondera’ nella solitudine. Con il cuore affranto, lo scorrere della vicenda mi ha riportato alla mente gli anni vissuti nella città che mi ha accolto e cresciuto sul suo grembo materno: Napoli, bella tra le belle, grondante tolleranza e tanto calore umano, pari solamente a quello che fuoriesce dai pori delle sue donne pingui e proletarie. Qui, gli scherzi dei bambini, le stranezze che fanno orripilare la piccola-borghesia convivono senza molti problemi. Nella metropoli del sole, seppur contraddittoria, ai ragazzi il popolo perdona tutto, dà sempre una chance. Ma l’ ambiente in cui Ciccio cresce è un paesino che non supporta l’azione dei farmaci.
Lui ama la musica (la batteria, in particolare), ma suonare di sera turba il sonno dei compaesani. La notte è fatta per dormire e perciò il quartiere insorge contro il disturbatore. Durante uno di questi “concerti serali” si fa largo un’ anziana maestra enfisematosa, distrutta dal tabacco, che lo accoglie presso di sé. Ma Caterina non comprende e fa troncare questo legame. Mentre scorrevano le immagini con i miei occhi rapiti dai volti dei bravissimi Moisè Curia (Ciccio) e Stefania Rocca (Caterina) ho meditato. La massa degli ignoranti, tali perché ignorano, al primo comportamento non conforme invoca la legge, quel chi o quel qualcuno (il sindaco, il medico) che devono provvedere, volenti o nolenti, a riportare ogni cosa alla peggiore normalità, che altro non è se non l’ indifferenza. L’ autorità deve garantire la fuga verso il proprio tugurio di miseria, imbellettato da paccottiglia dispensata a piena mani dalla cultura dominante.
Il familiare che ha prima vissuto la gioia della nascita di un bambino, non appena i primi segnali della disabilita fanno capolino, diviene uno sfortunato, un punito dal fato o dalla divinità.
Per la vandea gretta è un genitore che non sa educare, che vizia.
A scuola, insegnanti e famiglie si allarmano e richiedono provvedimenti severi, tendono a sostituirsi ai medici approntando diagnosi e dispensando inopportuni consigli terapeutici.
Ancora oggi mi rimbomba nella mente: “Questo ragazzo è strano, la testa non l’aiuta”; “Chiudetelo, seppellitelo”: aggiungiamo noi.
Il terrore della disabilità psichica penetra nella popolazione come un virus durante mortali pandemie.
Quante volte è accaduto, accade e accadrà sotto i miei occhi? Io cosa ho fatto?
Il tempo scorre, Ciccio ormai uomo, batterista a periodi alterni, tra ricoveri e giornate di abbandono sul letto e la persecuzione allucinatoria di Giampiero, finalmente, su interessamento della sorella, raggiungerà un centro di aiuto alle disabilita che, a quanto sembra di capire, sarà il suo nuovo cammino verso una vita meno triste. È un messaggio che schiude gli animi alla speranza, il fine della pellicola stessa, così ben fatta, che farà tirare sospiri di sollievo alle famiglie, ai vicini di casa e alla comunità tutta: una liberazione, insomma. Questa storia drammatica e luminosa senz’altro ci aiuta a cogliere in ogni fatto ed esperienza di vita una possibilità di liberazione ed umanizzazione. Ma pur riconoscendo valore e importanza alle comunità terapeutiche e al personale che profonde passione e impegno, condivisione e sensibiltà umana, il messaggio finale, come l’ approdo che viene proposto, non è del tutto condivisibile.
Non senza turbamento, mi sono chiesto se in un altro ambiente, in altri mondi la vita di Francesco Gioffredi e dei suoi familiari sarebbe stata meno triste. Io penso di si.
Dobbiamo perciò persuaderci che la lotta alla disabilità psichica contempla la rottura con la cultura dominante, che è esclusione di ciò che secondo i parametri del mercato “non vale nulla”. È consapevolezza seppur tormentosa di essere parte dei rapporti sociali e quindi premessa indispensabile per operare verso una società restituita alla sua umanità, liberata dall’ immondizia che la società mercantile instilla nelle più intime fibre del popolo e del proletariato.
Florenzo Doino

Una risposta a ““ABBRACCIALO PER ME” MEDITAZIONI DI UN MEDICO”

  1. Caro Florenzo, penso che la persona che ha disabilità psicologica oggi abbia molte più opportunità di essere supportata e seguita in modo più umano e rispettoso rispetto a decenni fa, oggi sono stati fatti molti passi avanti, dal punto di vista della contenzione farmacologica e del supporto psicologico. A queste conoscenze e protocolli medico psicologici purtroppo però, si sovrappongono scenari e cultura ancora immature avvezze a vedere la persona fragile psicologicamente come qualcuno che ha meno valore, forse perché non ha la possibilità di far sentire la propria voce. Il malato viene ancora ghettizzato, non accolto. Visto come strano. La cultura cambia più lentamente di tutto il resto, l’ ignoranza, il pregiudizio, sono i muri più difficili da abbattere. Io lavoro anche nella formazione e il mio principale dovere ritengo sia dare un contributo a rimuovere queste cecità

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *